giovedì 21 agosto 2008

Ancora sul Dalai Lama e la Cina

Ai giorni nostri, la campagna anticinese in corso presenta e celebra il Dalai Lama come il campone della non-violenza, come il vero erede di Gandhi. A tale proposito vale la pena di notare che per tanto tempo, l’Occidente liberale si è mostrato tutt’altro che simpatetico nei confronti di Gandhi. Sovrano è il disprezzo con cui Churchill parla di questo «fachiro sedizioso», di questo «misero vecchietto, il quale è da sempre nostro nemico», di questo «vecchio mascalzone» , il quale pretenderebbe di mettere le mani su «ciò che ci appartiene» e «vuole l’espulsione dell’Inghilterra dall’India» e «l’esclusione permanente del commercio britannico dall’India» . La consueta arroganza imperiale si carica talvolta anche di toni razzisti, come emerge in particolare da una presa di posizione del 1931:
«E’ allarmante e anche nauseabondo vedere Gandhi, un sovversivo avvocato del Middle Temple, ora in atteggiamento di fachiro secondo un modello ben noto in Oriente, ascendere a grandi passi e seminudo la scalinata del palazzo vicereale, mentre è ancora impegnato a organizzare e condurre una campagna provocatoria di disobbedienza civile, per andare a parlare a condizioni di parità con il rappresentante del re imperatore» .
In ogni caso, contro il movimento indipendentista, violento o non-violento che sia, occorre saper ricorrere ad ogni mezzo, e Churchill nel 1932 saluta il varo in India di misure «più drastiche di tutte quelle resesi necessarie fin dai tempi della Mutiny del 1857» , dai tempi cioè della rivolta dei Sepoys e della sanguinaria repressione che aveva a suo tempo suscitato l’indignazione di Marx.
Ancora ai giorni nostri, i toni cari a Churchill non sono dileguati del tutto. Uno storico-giornalista che, dalle colonnne dei più autoevoli organi di stampa statunitensi e occidentali in genere, è impegnato a celebrare il ritorno del colonialismo (Colonialism’s Back-and Not a Moment Too Soon), così si esprime a proposito di Gandhi: egli «aveva un anno più di Lenin, con il quale aveva in comune un approccio di carattere quasi religioso alla politica, ma la sua eccentricità lo avvicinava anche a Hitler, di vent'anni più giovane di lui» . Accostato a Lenin, il leader del movimento indipendentista indiano subisce la sorte riservata al bolscevismo che, dal punto di vista degli storici e giornalisti di corte, è solo il fratello gemello del nazismo.
La tendenza principale dell’ideologia dominante è oggi, tuttavia, ben diversa. A partire già dai primi anni della guerra fredda, dimenticati l’odio e il disprezzo nutriti in particolare da Churchill per il «sovversivo» e «orientale» nemico dell’Impero britannico e della civiltà occidentale, Gandhi assurge al ruolo di apostolo della non-violenza da contrapporre ai movimenti rivoluzionari di emancipazione dei popoli coloniali, che divampano in Asia e nel mondo intero; è così che, inopinatamente, Gandhi diviene l’antitesi di Mao, Ho Chi Minh, Castro e Arafat. Interviene poi un ulteriore e più decisiva mossa realpolitica. Martellante è la campagna multimediale, in base alla quale l’eredità di Gandhi quale campione della non-violenza sarebbe stata assunta ai giorni nostri dal Dalai Lama, non a caso insignito nel 1989 del premio Nobel per la pace.
Eppure, la realtà non è difficile da accertare. Essa risulta con chiarezza da due libri che vedono quale autore unico o quale co-autore due funzionari (di grado più o meno elevato) della Cia. Il primo, che per decenni ha collaborato col Dalai Lama e che esprime ammirazione e devozione per il «leader buddista votato alla non-violenza», riporta in questi termini il punto di vista espresso dal suo eroe: «Se non c’è alternativa alla violenza, la violenza è consentita». Tanto più che occorre saper distinguere tra «metodo» e «motivazione»: «Nella resistenza tibetana contro la Cina il metodo era l’uccisione, ma la motivazione era la compassione, e ciò giustificava il ricorso alla violenza». In modo analogo il Dalai Lama citato e ammirato dal funzionario della Cia giustifica e anzi celebra la partecipazione degli Usa alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea, allorché si trattava di «proteggere democrazia e libertà». Questi nobili ideali avrebbero continuato ad ispirare Washington in occasione della guerra del Vietnam, anche se in tal caso i risultati non sono disgraziatamente all’altezza delle intenzioni . Si comprende che, su tale base, perfetta risulta la sintonia col funzionario della Cia, che ci tiene a farsi fotografare assieme al Dalai Lama in atteggiamento amichevole e affettuoso. Anzi, egli tiene a dichiarare che anche lui, esattamente come il venerabile maestro buddista, non ama le «armi da fuoco» ma che si rassegna a approvarne e promuoverne l’uso solo quando esso risulta inevitabile . E dunque, reinterpretata alla luce degli insegnamenti del premio Nobel per la pace, la non-violenza sembrerebbe essere diventata la dottrina ispiratrice della Cia!
Proprio i funzionari di questa agenzia temuta nel mondo finiscono col tracciare un ritratto dissacratorio del Dalai Lama. Nel 1959 egli fugge da Lhasa: è la realizzazione di «un obiettivo della politica americana da almeno un decennio». Al momento del passaggio della frontiera tra Cina (Tibet) e India, il Dalai Lama nomina generale uno dei tibetani che l’avevano assistito nella fuga, mentre altri due, senza perdere tempo, con la radio loro fornita dalla Cia, trasmettono a quest’ultima un messaggio urgente: «Inviateci per via aerea armi per 30. 000 uomini» . Nonostante l’addestramento sofisticato fornito ai guerriglieri, la disponibilità da parte loro di un «inesauribile arsenale nel cielo» (le armi paracadutate dagli aerei statunitensi) e la possibilità di avvalersi di una retrovia sicura al di là della frontiera cinese e in particolare nella base di Mustang (in Nepal), la rivolta tibetana, preparata già prima del 1959 col lancio di armi e apparecchiature militari nelle aeree più impervie del Tibet , fallisce: i commandos infiltrati a partire dall’India conseguono risultati «generalmente deludenti»; «essi trovano scarso appoggio nella popolazione locale». In sintesi: Il tentativo di «alimentare dall’aria una guerriglia su larga scala si è rivelato un penoso fallimento»; «nel 1968 le forze di guerriglia a Mustang invecchiavano» senza essere capaci di «reclutare nuovi elementi». Gli Usa sono costretti ad abbandonare l’impresa, provocando una grave delusione nel Dalai Lama: «rammaricato egli osservò che nel 1974 Washington aveva cancellato il suo sostegno al programma politico e paramilitare» .
E’ ben difficile dunque vedere nel Dalai Lama l’erede di Gandhi! L’unica vaga analogia è col Gandhi della prima guerra mondiale che s’impegna a reclutare soldati indiani per l’esercito britannico e spera così di guadagnarsi la riconoscenza di Londra. Dalla Gran Bretagna l’India eredita l’aspirazione a staccare in qualche modo il Tibet dalla Cina: inquadrati in un corpo speciale (Special Frontier Force), i guerriglieri tibetani combattono sotto la direzione dell’esercito di Nuova Dehli nel corso della breve guerra di frontiera sino-indiana del 1962 e poi nel corso della guerra indo-pakistana del 1971. In questo contesto va altresì collocato l’appoggio fornito dal Dalai Lama alla politica indiana di armamento nucleare.
Un ruolo ancora più importante svolge la collaborazione con gli Usa: sommandosi al micidiale embargo imposto da Washington e alle persistenti operazioni di sabotaggio o di terrorismo promosse a partire da Taiwan, nei piani della CIA la rivolta tibetana era chiamata a «costringere Mao a disperdere le sue già scarse risorse» e a provocare il collasso della Repubblica popolare Cinese. E’ vero, l’obietivo principale non viene conseguito. E, tuttavia, oltre a indebolire il grande paese asiatico, gli Stati Uniti «traggono beneficio dall’intelligence raccolta dalle forze di resistenza» tibetane. Per di più, Cia ed esercito statunitense possono sperimentare «nuovi tipi di equipaggiamento, ad esempio aerei e paracadute» e «nuove tecniche di comunicazione» e accumulare preziose esperienze; «le lezioni apprese in Tibet» trovano poi applicazione «in luoghi quali il Laos e il Vietnam» .
Come si vede, è solo un mito la non-violenza del Dalai Lama; in due foto del giugno 1972 lo vediamo persino, assieme al generale indiano Sujan Singh Uban, passare in rassegna e arringare la Special Frontier Force, al cui impiego nella guerra contro il Pakistan egli aveva dato il suo «consenso» qualche mese prima . Ma come spiegare il mito? A fornire la risposta ci aiuta ancora una volta il funzionario della Cia che per decenni ha mantenuto i contatti col leader indipendentista tibetano. Nel 1950, con lo scoppio della guerra in Corea, l’agenzia riceve istruzioni perché contro la Cina siano condotte non solo «operazioni paramilitari» ma anche una «guerra psicologica» . Il progetto conosce ulteriori perfezionamenti in seguito alla rivolta del 1959: il «gruppo di strategia psicologica» invita l’amministrazione Eisenhower ad «alimentare la ribellione il più a lungo possibile e a darle la massima enfasi sui mezzi di informazione»; «la Cia assolda una ditta di pubbliche relazioni per aiutare i tibetani a pubblicizzare la loro causa» . L’orientamento di fondo di questa guerra psicologica era stato già chiarito nei primi anni della guerra fredda: si trattava di «chiamare a raccolta i buddisti dell’Asia contro l’espansione dei comunisti cinesi» . Al comunismo sinonimo di violenza occorreva contrapporre il buddismo sinonimo di non-violenza. Non stupisce allora che lo «schermo» (screen) della non-violenza cominci a circonfondere la figura del Dalai Lama . A conoscere un’accecante trasfigurazione non è solo una singola personalità, ma anche il mondo di cui egli è espressione: il Tibet premoderno e prerivoluzionario diviene un luogo incantato, dal quale sono dileguati la schiavitù, il servaggio, la violenza della classe dominante, anzi la violenza in quanto tale. In realtà, ben lungi dall’essere un idillio, la Lhasa del buon tempo antico rassomigliava alla «Firenze dei Borgia» . Ma la guerra psicologica, le ditte di pubbliche relazioni e Hollywood (che ha svolto un ruolo centrale già nel corso della guerra fredda) sanno fare miracoli: il Dalai Lama e il buddismo tibetano diventano l’incarnazione della non-violenza.
Richiamandosi a Gandhi e al Dalai Lama, circoli che dichiarano di essere di sinistra e persino radicali – si pensi per quanto riguarda l’Italia al «Partito radicale transnazionale», diretto da Marco Pannella – non solo bollano come sanguinosi e sanguinari i movimenti di liberazione nazionale (ad esempio la resistenza palestinese), ma vanno ancora oltre: in contrapposizione a tali movimenti, ignari della lezione della non-violenza e in preda a pulsioni omicide e totalitarie, i sedicenti «radicali» appoggiano regolarmente le guerre promosse da Washington per l’esportazione della «democrazia», e con un’enfasi tutta particolare le guerre scatenate da Israele contro i suoi vicini arabi e, in primo luogo, contro il popolo palestinese. L’appoggio alle guerre statunitensi-israeliane è in contraddizione col principio della non-violenza? I «radicali» non hanno difficoltà a rinviare al Gandhi che, nel corso della prima guerra mondiale, sostiene lo sforzo bellico dell’Impero britannico e che mette a tacere i suoi avversari, accusandoli di essere pavidi e persino «effeminati».
A questo punto la «non-violenza» si è trasformata in una ideologia della guerra (per ora fredda).


Riferimenti bibliografici

Yogesh Chada 2000
Rediscovering Gandhi (1997), tr. it., di Mario Prayer, Gandhi. Il rivoluzionario disarmato (1998), Mondadori, Milano

Kennet Conboy, James Morrison 2002
The CIA’s Secret War in Tibet, University Press of Kansas, Lawrence

Niall Ferguson 2004
Empire. The Rise and the Demise of the British World Order and the Lessons for Global Power (2002), Basic Books, New York

Paul Johnson 1989
A History of the Modern World from 1917 to the 1980s; (1983); tr. it., di Elisabetta Cornara Filocamo, Storia del mondo moderno (1917-1980), Mondadori, Milano

John Kenneth Knaus 1999
Orphans of the Cold War. America and the Tibetan Struggle for Survival, PublicAffairs, New York

Domenico Losurdo 2006
Le révisionnisme en histoire. Problèmes et mythes, Albin Michel, Paris

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